La seconda figlia. Non amata (Osea 1,6-7)

La seconda figlia. Non amata (Osea 1,6-7)

Nessuna discendenza per il primogenito Izreèl. Ma subito dopo nasce Ruhàmah. Alla secondogenita di Osea, Dio impone un nome dal suono dolce, ma terribile nel significato.

Il primogenito portava il nome del sangue e dello sterminio: la fine del regno del Nord e l’annientamento della dinastia regale. La secondogenita si chiama “Non-amata”, non accettata, non protetta, non curata. Quella di cui non si ha compassione.

Quel nome rimanda all’amore materno, alla premura che una mamma manifesta per i suoi figli e le sue figlie, ma che a lei saranno negati.

Dio spesso viene descritto nella Bibbia come una mamma amorevole, alla quale si contraggono le viscere davanti alla sorte della prole. Almeno sessanta aggettivi descrivono Dio al femminile. Almeno duecentosessanta volte nella Scrittura si fa riferimento alle “viscere di misericordia” del Signore, come la mamma che non smette di preoccuparsi mai per i figli, usciti dal proprio utero, la stessa carne.

Israele si sente al sicuro: «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l'anima mia» (Sal 131,2). Dio si è sempre mostrato come una madre che si prende cura e consola. Ma adesso è cambiato il suo sguardo.

Quando il Signore stabilisce la sua alleanza, passa davanti a tutto il popolo, facendo risuonare le sue intenzioni: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Es 34,6-7).

Adesso è il tempo della punizione e del castigo, che si estenderà fino alla terza e alla quarta generazione. È terminato lo sguardo della compassione e della tenerezza.

Un giorno, mentre stava osservando degli operai che stavano tirando su un muro, il profeta Amos percepisce la voce del Signore: «Io pongo un filo a piombo in mezzo al mio popolo, Israele; non gli perdonerò più» (Am 7,8). E un altro giorno, mentre stava passeggiando per il mercato, davanti a un canestro di frutta matura: «È maturata la fine per il mio popolo, Israele; non gli perdonerò più» (Am 8,2).

E senza il perdono di Dio, non si può vivere. La misericordia è questione di vita o di morte. La misericordia, cioè che Dio ci guardi con tenerezza e si prenda cura di noi, non è un’opzione, ma il fondamento di ogni esistenza.

Il popolo aveva maturato questa certezza: dal tempo della liberazione dall’Egitto, attraverso il deserto e il travaglio quotidiano, attraverso le vicissitudini e le scelte sbagliate, attraverso gli eroi e i tiranni, sempre il popolo aveva sperimentato la misericordia del suo Signore, che viene sempre in soccorso. Quando la prima coppia si trovò nuda davanti alla propria vergogna, Egli gli cucì addosso i primi vestiti. Quando il fratello si macchiò con il sangue del fratello, Egli mise un limite alla vendetta. Quando l’umanità stava annientando se stessa e la creazione intera, Egli fermò l’opera dissennata di distruzione. E quando la fine sembrava inevitabile, Egli fece costruire una nave maestosa, che potesse salvare almeno qualcuno e qualcosa.

Bene Carlo Collodi ha rappresentato questa ostinata relazione di amore cieco, nella favola di Pinocchio. Geppetto, davanti alle malefatte di quel figlio tanto desiderato è disposto a scusare tutto e a rimediare a ogni cosa. Finché non c’è più niente da fare. Finché Pinocchio si mette nella condizione di non essere più salvato.

E allora basta! Per il popolo d’Israele, per Pinocchio e per ciascuno di noi, arriva il giorno in cui non si può fare più niente e la corda si stucca. Il giorno in cui Dio sembra totalmente estraneo. Definitivamente assente. Quando non c’è più rimedio, non c’è più perdono, non c’è più salvezza.

«La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea: "Chiamala Non-amata,
perché non amerò più la casa d'Israele,
non li perdonerò più» (Osea 1,6).

La conseguenza dell’abbandono della misericordia del Signore è l’assedio alla città di Samaria del re assiro Salmanàssar. Dopo tre anni, la città cade e i suoi abitanti furono deportati in terra straniera. Vano ogni tentativo di alleanza con le potenze straniere. La causa della rovina non era dovuta alla forza o alla strategia. Tutt’altro.

«Ciò accadde perché quelli non avevano ascoltato la voce del Signore, loro Dio, e avevano trasgredito la sua alleanza, cioè tutto quello che egli aveva ordinato a Mosè, servo del Signore: non l'avevano ascoltato e non l'avevano messo in pratica» (2Re 16,12).

Alcuni anni più tardi, Sennacherib, re d’Assiria, salì contro tutte le città fortificate di Giuda e le prese. E il re del Sud Ezechia prova a resistere, offrendo anche una grandissima quantità d’argento e d’oro, preso dalla sua reggia e dal Tempio. Ma l’operazione non riesce. L’Assiria vuole prendere anche Gerusalemme, come ha già preso Samaria.

Tutto il popolo viene chiamato in causa. Il re di Assiria manda i suoi ambasciatori migliori, per convincere tutti alla resa. Ma il re Ezechia sta convincendo tutti a continuare ad avere fiducia nel Signore, l’unico liberatore.

La soluzione ragionevole sembrerebbe unicamente la resa. La soluzione più ragionevole e la più accomodante: «Fate la pace con me e arrendetevi. Allora ognuno potrà mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico e ognuno potrà bere l'acqua della sua cisterna, fino a quando io verrò per condurvi in una terra come la vostra, terra di frumento e di mosto, terra di pane e di vigne, terra di ulivi e di miele; così voi vivrete e non morirete» (Is 36,16-20).

Si tratta di rinunciare alla propria dignità, alla propria verità, alla propria libertà, alla propria fede. Ma altrimenti andrebbe peggio. Non è meglio scendere a compromesso, per non perdere tutto? Non è più vantaggioso intraprendere la via di mezzo, pur di conservare la tranquillità e la sopravvivenza?

«Non ascoltate Ezechia che vi inganna, dicendo: Il Signore ci libererà!» (2Re 18,31). Non vi basta aver assistito alla distruzione di grandi città, che pure confidavano nei loro idoli? Non vi spaventa la sorte toccata a Samaria, che pure credeva nel vostro stesso Dio?

Nessuno risponde. Possono confidare soltanto nel Signore, che non li ha mai delusi. Si rifugiano tra le braccia materne della sua compassione. Sarà un giorno incerto di preghiera e di penitenza. Sarà una lunga notte di attesa.

I profeti invitano alla speranza, ma il messaggio del re di Assiria, risuona nelle orecchie di tutto il popolo: «Non ti illuda il tuo Dio in cui confidi, dicendo: Gerusalemme non sarà consegnata in mano al re d'Assiria. Ecco, tu sai quanto hanno fatto i re d'Assiria a tutti i territori, votandoli allo sterminio. Soltanto tu ti salveresti? Gli dèi delle nazioni, che i miei padri hanno devastato, hanno forse salvato quelli di Gozan, di Carran, di Resef e i figli di Eden che erano a Telassàr? Dove sono il re di Camat e il re di Arpad e il re della città di Sefarvàim, di Ena e di Ivva?» (2Re 19,10-13).

Lunga è la lista dei buoni motivi per cercare un compromesso di sopravvivenza. Tutti si sono arresi, tutti si sono adeguati. Come potete pensare di vincere, soltanto confidando nel vostro Dio?

Ma il re di Giuda insiste nel confidare solo in Dio e nella sua compassione materna. E prega.

«Signore, Dio d'Israele, che siedi sui cherubini, tu solo sei Dio per tutti i regni della terra; tu hai fatto il cielo e la terra. Porgi, Signore, il tuo orecchio e ascolta; apri, Signore, i tuoi occhi e guarda. Ascolta tutte le parole che Sennacherib ha mandato a dire per insultare il Dio vivente. È vero, Signore, i re d'Assiria hanno devastato le nazioni e la loro terra, hanno gettato i loro dèi nel fuoco; quelli però non erano dèi, ma solo opera di mani d'uomo, legno e pietra: perciò li hanno distrutti. Ma ora, Signore, nostro Dio, salvaci dalla sua mano, perché sappiano tutti i regni della terra che tu solo, o Signore, sei Dio» (2Re 19,15-19).

E il Signore pronuncia la sentenza: «Il re d’Assiria non entrerà a Gerusalemme, non vi scaglierà contro neppure una freccia. Non durerà a lungo il suo assedio. Se ne tornerà da dove è venuto» (cfr. 2Re 19,20-33).

«Ora in quella notte l'angelo del Signore uscì e colpì nell'accampamento degli Assiri cento ottantacinquemila uomini. Quando i superstiti si alzarono al mattino, ecco, erano tutti cadaveri senza vita. Sennacherib, re d'Assiria, levò le tende, partì e fece ritorno a Ninive, dove rimase» (2Re 19,35-37). E non fece poi una bella fine, ammazzato dai suoi stessi figli.

«Invece io amerò la casa di Giuda
e li salverò nel Signore, loro Dio;
non li salverò con l'arco, con la spada, con la guerra,
né con cavalli o cavalieri» (Osea 1,7).

Il re di Samaria, per provare a salvare il salvabile, era sceso a ogni compromesso possibile. Aveva cercato di allearsi con chiunque. Ma non aveva confidato nel Signore. Aveva pensato di cavarsela con l’astuzia e l’opportunismo. Aveva considerato la sua intelligenza e la sua volontà, superiori alla compassione di Dio, che tutto vede, tutto sa, tutto può.

E l’ho fatto molte volte anche io. E lo vedo fare dal nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa davanti alle minacce del mondo.

Quando rispondiamo con lo stesso risentimento, la stessa crudeltà, la stessa malizia con cui siamo attaccati. Quando confidiamo in una salvezza, che non tiene conto della volontà di Dio. Quando affrontiamo la vita, dimenticando che siamo stati creati dalla sua fantasia di artista e non dalla strategia di un diplomatico. Quando abbiamo paura di riconoscere la colpa, aprendoci alla speranza. Quando non sappiamo attendere. Quando cerchiamo sopravvivenza nell’arco, nella spada, nei cavalli e nei cavalieri del potente di turno, del politico influente, della corrente di pensiero più vantaggiosa, del bacino elettorale più ampio, della mossa più conveniente, dell’iniziativa più appagante.

«A volte si ha l’impressione che le comunità religiose, le curie, le parrocchie siano ancora un po’ troppo autoreferenziali». Così, papa Francesco ammonisce le comunità cristiane che sono in Italia.

«È una bella malattia questa, una bella malattia che ha la Chiesa: autoreferenziale, la mia parrocchia, la mia classe, il mio gruppo, la mia associazione… Sembra che si insinui, un po’ nascostamente, una sorta di “neoclericalismo di difesa”… generato da un atteggiamento timoroso, dalla lamentela per un mondo che “non ci capisce più”, dove “i giovani sono perduti”, dal bisogno di ribadire e far sentire la propria influenza» (Francesco).

E si dimentica la compassione del Padre. E ci si allontana dall’abbraccio premuroso della Madre. E ci si perde, dietro alle proprie certezze.

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