Il terzo figlio. Non Mio Popolo (Osea 1,8-9)

Il terzo figlio. Non Mio Popolo (Osea 1,8-9)

Osea è il profeta di Dio e la sua sposa Gomer, una prostituta.

Da questa unione bizzarra nasce subito un figlio e poi una figlia. I loro nomi hanno un significato terribile. Sono messaggi di Dio.

La vicenda coniugale del profeta è l’immagine della relazione idolatrica che Israele sta vivendo con il suo Signore. E la nascita dei figli annuncia al popolo catastrofe e sventura.

Attraverso la storia di Osea, Dio minaccia di vendicarsi contro il suo popolo infedele, che a causa della sua infedeltà andrà incontro a conseguenze di morte e non otterrà più alcuna compassione. Izreèl annuncia distruzione. Non Amata annuncia l’abbandono di Dio e la negazione della misericordia.

Ma la nascita di Non Mio Popolo annuncia la fine e la perdita irrimediabile di ogni possibilità.

«Quando ebbe svezzato Non-amata,
Gomer concepì e partorì un figlio. 
E il Signore disse a Osea:
"Chiamalo Non-popolo-mio,
perché voi non siete popolo mio
e io per voi non sono» (Osea 1,8-9).

Ma per capire il dramma di una tale profezia, bisogna fare un passo indietro nella storia di Israele.

Il popolo di Israele si trova «oltre il Giordano, nel deserto, nell'Araba, di fronte a Suf, tra Paran, Tofel, Laban, Caseròt e Di-Zaab». Mosè tiene uno degli ultimi discorsi. Sono passati quarant’anni e undici mesi dall’uscita dalla schiavitù dell’Egitto.

La liberazione è un cammino lungo, articolato e faticoso, spesso contraddittorio. Ma è comunque una bella avventura.

Mosè ricorda che erano da centinaia di anni una tribù di schiavi, ridotti alla disperazione, padroni di niente in terra di Egitto, finché qualcuno ha gridato al Signore e il Signore ha risposto, con segni e prodigi.

In Egitto e nel deserto del Sinai, il Signore si è fatto conoscere, come l’unico che libera e salva, e dopo tre mesi stabilisce un’alleanza. Propone le sue Parole, per regolare il cammino verso la felicità. Ma Israele, davanti all’evidenza della storia, preferisce agire di testa sua e regolarsi a modo suo.

Il paradosso del Signore che ti offre la vita piena, la felicità, e tu, appena scampato dalla spada del Faraone, in mezzo a un deserto ostile, senza acqua, senza cibo, senza alcun riparo, senza altri punti di riferimento, pretendi di darti la vita da solo. Come quelli massacrati dalle loro stesse scelte, senza alcuna possibilità di riscatto, che continuano a dare consigli di vita agli altri e a Dio. Senza vergogna.

Liberati dalla schiavitù e dalla tristezza, liberati dalla fame e dalla sete, liberati dalla pesantezza dei giorni e dalla perdita di orizzonte, liberati dalla violenza, da ogni pericolo e dalla morte. Ma non abbastanza liberi da se stessi e dalle proprie certezze e mormorazioni.

«Oggi il Signore, tuo Dio, ti comanda di mettere in pratica queste leggi e queste norme. Osservale e mettile in pratica con tutto il cuore e con tutta l'anima. Tu hai sentito oggi il Signore dichiarare che egli sarà Dio per te, ma solo se tu camminerai per le sue vie e osserverai le sue leggi, i suoi comandi, le sue norme e ascolterai la sua voce. Il Signore ti ha fatto dichiarare oggi che tu sarai il suo popolo particolare, come egli ti ha detto, ma solo se osserverai tutti i suoi comandi» (Deuteronomio 26,16-18).

Ma Israele non ascolta. Non ci crede. Non si fida. E continua a vagare a caso e per tentativi.

Dopo due anni, riesce ad arrivare alla terra desiderata, finalmente. Attraverso un deserto grande e spaventoso, verso le montagne degli Amorrei. Dio non li ha abbandonati. Li lascia fare, ma non li ha abbandonati.

Ma nel momento di scegliere tra Dio e le proprie paure, Israele sceglie male. E comincia a vagare per trentotto anni alla ricerca ossessiva di qualcosa che vede, ma non riesce mai a raccogliere: la felicità.

Alla fine, si stanca di essere testardo, comincia a obbedire alle Parole del Signore, come a una lampada che illumina il buio, come una bussola che indica il cammino. Il Signore non si è pentito di essere il suo Dio. E Israele diventa un popolo.

E ogni volta che, nei secoli dei secoli, rielaborerà la sua storia e la sua identità, ripenserà a quella schiavitù e a quella liberazione, a quel deserto e a quelle mormorazioni, alla sua infedeltà e all’amorevole ostinazione di Dio.

E ogni israelita, al tempo di Osea, aveva l’unica certezza, che la sua esistenza dipendesse da quella liberazione e da quella alleanza, da quel cammino nel deserto e da quella cura, che i profeti seppero riassumere con la formula matrimoniale: «io sono tuo marito e tu sei mia moglie». Io sono il tuo Dio e tu sei il mio popolo.

Negare questo fatto, significava rinunciare ad esistere.

Quando Adamo ed Eva avevano ceduto alla tentazione ed erano rimasti nudi, il Signore ci ha messo una pezza e in qualche modo li ha rivestiti. Quando Caino ha assassinato il fratello, sottomettendosi alla legge della vendetta, il Signore lo ha difeso.

E quando il Signore decise di farla finita con la Creazione, ormai fuori controllo, ha mandato il diluvio. Ma non ha annientato tutto. Ha preservato un germoglio di speranza.

Anche quando decise la distruzione di Sodoma e Gomorra, nonostante il peccato fosse molto grave, riuscì a trovarvi qualcuno che si salvasse. E non fu la distruzione totale.

Quando ho voluto fare di testa mia e sono andato a caso. Quando ho dimenticato la mia identità e il fondamento della mia liberazione e felicità. Quando ho pensato di essere giunto alla terra desiderata per mio merito o per fortuna. Quando ho presunto di essere il più forte e sono stato sconfitto. Quando mi sono illuso di avere tutto.

Ho sperimentato il fallimento, senza possibilità di recupero. Ed è terribile.

Come la sentenza del profeta Osea, che ormai senza più speranza né amore, oltraggia l’identità del terzo figlio di prostituzione, Non Mio Popolo.

Sei arrivato al punto di non ritorno. Hai raggiunto il colmo della provocazione e dell’infedeltà. La massima distanza.

Quando la corda si spezza, cadi irrimediabilmente nell’abisso delle giustificazioni, delle menzogne e delle illusioni. La disperazione. La fine meritata. La vergogna. La nevrotica convinzione di potercela fare a ricominciare. O a smettere. L’impossibilità di rialzare solo lo sguardo.

Non sei più mio e io non sono più tuo.

«Voi non siete popolo mio e io per voi non sono».

L’estraneità di Dio è, senza rimedio, la morte.

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1 commento

È un testo difficile e credo possa essere commentato solo da un teologo.
Come impressione,ne sono angosciata,perché un intero popolo può cadere nell’abisso del peccato
e non saper chiedere aiuto a Dio,come succede in questo tempo.

Gabriella Bruschi

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